mercoledì 29 gennaio 2014

L’urlo dell’Ucraina, il silenzio dell’Europa


A PRIMA vista sembra un vasto e violento tumulto in favore dell’Europa, quello che da mesi sconvolge l’Ucraina. Un tumulto che ci sorprende, ci scombussola: possibile che l’Unione accenda le brame furiose di un popolo, proprio ora che tanti nostri cittadini la rigettano?
È possibile, ma a condizione di decifrare l’insurrezione: di esplorarne i buchi neri, gli anfratti. Di capire che la dimissione del premier Azarov non metterà fine alla rabbia, all’anarchia. A condizione di non consegnare l’Ucraina al nero della solitudine e mantenere però la mente fredda: che analizza, distingue la superficie visibile dai sottofondi. A condizione che l’Europa sappia di essere non solo simbolo, ma pretesto per abbattere il regime di Kiev. Che diventi motore degli eventi, smettendo di vedere se stessa come Empireo immune da difetti che abbraccia i cieli inferiori ma senza responsabilità. Lo sguardo europeo è attratto dagli esotismi, ed esoticamente lontana èPiazza-Europa, chiamata dagli ucraini Euromaidan. Incapace di far politica, l’Unione commenta con pietrificati sermoni sui propri valoriil film atroce, fatto d’incendi e lividi paesaggi, che vediamo in Tv.
Abbiamo alle spalle anni di esperienze esotiche finite nel caos: le primavere arabe, la Libia, la Siria. Le primavere svegliarono euforie democratiche degenerate in carneficine. Un’analisi di questo radicale fallimento neppure è cominciata: né in Usa né in Europa. Fondata è l’accusa dello scrittore polacco Andrzej Stasiuk sulla Welt:viviamo, noi europei, nella paura di perdere la «roba» e nell’endogamia. La nostra risposta agli squassi ucraini è una patologica coazione a ripetere.
I trattati di psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell’identica perversa letargia, intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.
Eppure gli elementi dell’immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in guerre civili perché reietto. L’ira esplose il 21 novembre, quando Kiev rinunciò al trattato di associazione con l’Unione per timore di perdere Putin, che sarà un semi- dittatore ma garantiva più aiuti dell’Europa, e contratti promettenti in materie vitali: le forniture d’energia. Dopodiché tutto s’è sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4 attivisti morti). L’insurrezione è senza leader e programmi stabili.
Nel suo torrente nuotano anche gli ultranazionalisti,raccontano i reporter, ma l’aggettivo è eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la formazione
Svoboda,nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera (collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il «Settore di destra» (Pravi Sektor),che rischia di alterare un movimento in principio liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti del Sunday Times lo scrive sulla Stampa: per tanti, «l’integrazione nell’Unione europea non è la priorità». Non basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.
L’inerzia dell’Unione europea risale ai tempi dell’allargamento. Già allora ci si concentrò su regole finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la natura federale dell’Unione in modo da frenare i nazionalismi dell’Est, e costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra lei e noi (l’«estero vicino», si chiama a Mosca: è «estero vicino» anche per noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una «catastrofe storica» la fine dell’impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l’Europa aspetta — per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda — che la prima mossa sia americana.
Quel che colpisce nel no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo, frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l’Europa è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un’Ucraina ancora erede dell’ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia. Utile è riconoscere invece che l’era degli allargamenti è conclusa, che le adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre l’Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L’Europa innalza muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C’è poco da compiacersi. La disfatta è nostra.
Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta. Ad esempio: dove finisce l’Europa e dove precisamente comincia l’Est? Cosa vuol dire confine, e l’EsteroVicino?E quali sono i criteri che permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l’Europa ma in parte anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua orbita?
Qui è il guaio: l’Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli. L’allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l’Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuoviStati, esclusa la Polonia a partire dal 2010,
non hanno capito l’Unione in cui entravano: la scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l’ignoto, non verso un’autorità comune, solidale, forte di un’autentica politica estera. L’Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l’Unione è un’area di libero scambio, non una potenza politica.
Non stupisce che gli inviati europei a Kiev (Catherine Ashton, incaricata dei rapporti esterni, è una delle persone più scialbe dell’Unione) siano completamente muti. Che Van Rompuy, A parte questo: nulla. Sono andati alla Piazza di Kiev politici Usa (Victoria Nuland vice segretario di Stato, i senatori John McCain, Chris Murphy) ma nessun politico europeo di rilievo. Non per questo gli Stati dell’Unione sono assenti. Angela Merkel è molto attiva: sostiene un oppositore del regime di Kiev, l’ex pugile Vitaly Klitschko, ma solo per immetterlo nel Partito popolare europeo e punzecchiare Putin senza un piano generale. Ancora una volta non è l’Unione a muoversi, ma il paese geopoliticamente più interessato, e forte.
In Europa si coltiva l’idea, esiziale, che prima viene l’economia, e chissà quando la politica estera. È una delle sue più gravi menomazioni. Avere una politica estera, nel Mediterraneo e in una Russia pensata oltre Putin, implica collocarsi nel mondo come soggetto politico, non come finanziere o commerciante. Accodarsi a Washington significa condividere un destino di guerre perse, di potenza non più egemonica e solo nazionalista, impreparata a pensare un mondo i cui attori sono oggi molteplici. Un destino che mescola valori altisonanti e calcoli economici, creando guazzabugli. Da questa gabbia conviene uscire al più presto.

Guerra alle diseguaglianze


Il divario tra poveri e ricchi è la nuova sfida
Obama ha pronunciato ieri il suo sesto (o quinto, contando solo quelli ufficiali) discorso sullo Stato dell’Unione. Per alcuni si tratta di un evento rituale, ma quest’anno il discorso potrebbe marcare una svolta politica e non soltanto per gli Stati Uniti.
Poche settimane fa Obama ha definito la disuguaglianza economica la «questione decisiva del nostro tempo» e gli ulteriori dati di cui siamo venuti a conoscenza nel frattempo rafforzano questa valutazione, non soltanto per gli Stati Uniti. Non sorprende, quindi, che, secondo le anticipazioni della Casa Bianca, la disuguaglianza sia diventato uno dei temi centrali del discorso e, soprattutto, che Obama abbia deciso di non limitarsi a denunciare il fenomeno e di proporre alcune concrete misure. La più concreta di queste misure sarebbe l’innalzamento del salario orario minimo da 7,25 a 10,10 dollari e il suo adeguamento automatico con l’inflazione. Di elevare il salario minimo si è discusso e si discute anche in Europa. Si può ricordare, ad esempio, la decisione presa in Germania per iniziativa dei socialdemocratici e la discussione che si sta svolgendo anche in Gran Bretagna. La grande maggioranza degli economisti valuta positivamente questa misura, soprattutto da quando alcuni studi hanno mostrato che i temuti effetti negativi sull’occupazione non si sono verificati nei casi di fissazione del salario minimo a un livello «ragionevole». Per questo anche l’Economist di recente si è espresso in modo favorevole.
Elevare il salario orario minimo significa contrastare il fenomeno dei working poor che anche negli Stati Uniti è diffuso: in particolare, più di un lavoratore part-time su quattro si troverebbe al di sotto della soglia della povertà. Inoltre, la domanda di consumo potrebbe crescere con effetti positivi sulla produzione e sull’occupazione.
Questa misura opera sulla parte bassa della distribuzione; essa non tocca i redditi più elevati, che sono anche quelli cresciuti di più negli ultimi anni, e per questo la proposta di Obama potrebbe apparire timida. In effetti così è, ma per esprimersi compiutamente su questo, non può essere elusa la questione della realizzabilità politica delle misure di contrasto alla disuguaglianza.
E a questo riguardo c’è una importantissima qualificazione da fare. La misura, secondo quello che finora sappiamo, non riguarderà tutti i lavoratori e quindi di essa non potranno beneficiare i circa 20 milioni di lavoratori americani che vengono retribuiti meno di 10 dollari l’ora. Al contrario, Obama la proporrà soltanto per i lavoratori di imprese titolari di appalti del governo federale. La ragione è molto semplice: il Congresso a maggioranza repubblicana si è già espresso contro e Obama, non volendo rinunciarvi, usa i suoi poteri di Presidente per applicare la misura soltanto a coloro che producono beni e servizi per l’Amministrazione. Il conflitto è, dunque, evidente e le prime reazioni dei Repubblicani, che parlano di abuso di poteri e violazione della Costituzione, preludono a un suo aggravamento. La «modestia» della proposta di Obama va giudicata alla luce delle resistenze che lo schieramento politico conservatore oppone all’adozione di misure di riduzione della disuguaglianza, anche soltanto quelle che operano sulla parte bassa della distribuzione, senza sfiorare i redditi più alti. Dalla parte di Obama sembra però esserci la stragrande maggioranza degli americani: oltre i tre quarti sarebbero favorevoli all’innalzamento dei salari minimi, secondo diversi recenti sondaggi. Siamo di fronte a una buona esemplificazione dell’affermazione secondo cui la disuguaglianza è un problema politico che ha anche importanti risvolti per il funzionamento della democrazia.
Per questo merita particolare attenzione il sesto discorso di Obama sullo Stato dell’Unione e ancora di più la meritano gli sviluppi che ci saranno. Essi ci diranno se quel discorso avrà contribuito, come in alcuni altri casi della storia, a marcare un significativo cambiamento, non soltanto nella percezione di quanto grave sia il problema delle disuguaglianze, ma anche nell’effettiva possibilità di farvi fronte con equilibrio e senso di giustizia. E non solo negli Stati Uniti.

martedì 28 gennaio 2014

I paletti della Costituzione


POICHÉ si è voluto definirla una “svolta storica”, la vicenda della nuova legge elettorale e di alcune riforme costituzionali non dovrebbe essere soggetta a diktat, chiusa nel campo ristretto di una politica che non sembra disponibile a misurarsi con tutte le implicazioni di scelte particolarmente impegnative.
Si corrono così tutti i rischi legati all’inadeguatezza di testi frettolosamente confezionati e ancor più frettolosamente adottati.
Ma vi è pure una sorta di ironia delle cose politico-istituzionali, che ha trasformato un aggressivo “rottamatore” in un prudente “restauratore” di uno degli assi portanti di un sistema di cui pure aveva denunciato tutti i limiti. Questo è un risultato politico ormai acquisito, e che non può essere sottovalutato, quale che sia l’esito finale del processo di riforma.
Dalle parti più diverse, e con argomenti che non possono essere ignorati, si è soprattutto messo in evidenza come il testo della nuova legge elettorale, già all’esame della Camera dei deputati, non rispetti la più importante delle indicazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale — quella riguardante le forzature maggioritarie che svuotano di significato la rappresentanza, dunque la stessa democrazia parlamentare. È preoccupante, allora, che non venga affrontata con la dovuta serietà e consapevolezza una questione che è della massima rilevanza politica. Sembra quasi che, spinti dal bisogno di ottenere comunque un risultato in tempi brevi, si sia deciso di correre un pericolosissimo azzardo costituzionale. Che cosa accadrebbe, infatti, se una legge elettorale freschissima di approvazione dovesse, come la precedente, essere portata davanti alla Corte costituzionale per un suo contrasto proprio con quanto i giudici della Consulta hanno appena stabilito? Non sfugge a nessuno la gravità della situazione che si determinerebbe, con effetto immediato di delegittimazione del nuovo sistema elettorale, mentre proprio l’accento mille volte posto sulla “stabilità” ha qui una più profonda ragion d’essere. Abbiamo bisogno di una legge elettorale davvero “blindata” di fronte ai rischi della incostituzionalità, come passaggio indispensabile per la stabilità complessiva del sistema e per il recupero della fiducia dei cittadini. Ben consapevoli di questo rischio, di cui tutti dovrebbero seriamente preoccuparsi, un gruppo di giuristi ha prospettato l’eventualità di un intervento del Presidente della Repubblica, non nella forma di una indiretta “moral suasion”, ma attraverso un rinvio alle Camere di una legge fortemente sospetta di incostituzionalità. Siamo ormai giunti ad un punto di fragilità del sistema nel suo insieme per cui ogni uso congiunturale delle istituzioni, ogni loro manipolazione con l’ottica del brevissimo periodo, può avviare una spirale distruttiva.
Al di là dei conflitti intorno a singole questioni, e delle ricorrenti strumentalizzazioni, vi è dunque un nodo politico che deve essere sciolto. Non riprodurrò qui tutti gli specifici argomenti che danno solido fondamento alla critica del testo sanzionato dall’accordo tra Berlusconi e Renzi, alcuni dei quali hanno una così forte evidenza da far sospettare che, scrivendo quel testo, si sia voluto tenere sullo sfondo la sentenza della Corte costituzionale, per inadeguatezza di lettura o per deliberata intenzione di non attribuire a questa decisione tutto il peso che le spetta nella definizione della politica costituzionale. Si manifesta così una inquietante idea di “autonomia del politico”, di una discrezionalità legislativa sciolta da ogni vincolo, che contrasta in radice con il punto fondamentale della decisione della Corte dove si stabilisce che nel nostro sistema non vi sono zone franche, sottratte al controllo di costituzionalità. Questa forma di controllo è inseparabile dal costituzionalismo democratico e, invece di stimolare spiriti di rivincita o occasioni di conflitto, dovrebbe indurre a quella “leale collaborazione” tra le istituzioni mancata in questi anni e che rappresenta una delle cause della crisi che stiamo vivendo.
Ma, proprio nel momento in cui la politica sembra voler sprigionare la sua forza residua, manifesta una volta di più le sue debolezze. Non si può certo negare che l’inadeguatezza degli strumenti istituzionali abbia contribuito ad impoverire la politica o a distorcerla deliberatamente. L’esempio più clamoroso è sicuramente la legge elettorale appena dichiarata incostituzionale, approvata con l’esplicito obiettivo di azzoppare la coalizione guidata da Romano Prodi (e che l’opposizione, colpevolmente, non contrastò in maniera adeguata). Ma oggi si racconta una storia che non ha alcun riscontro nei fatti, enfatizzando la necessità di far sì che, come accadrebbe negli altri paesi, la sera stessa delle elezioni si conoscerebbe il nome di un vincitore, libero da ogni ipotesi di larghe intese e destinato poi a governare senza inciampi nei cinque anni successivi. Favole istituzionali, come dimostrano
l’esempio tedesco, con le sue larghissime intese e i due mesi di negoziato sul comune programma di governo; l’esempio inglese, che proprio in occasione delle ultime elezioni vedeva possibile una coalizione diversa da quella che ha dato vita all’attuale governo; quello francese, con la possibile coabitazione tra maggioranze diverse, una che investe il Presidente della Repubblica e un’altra che compone l’Assemblea nazionale; lo stesso caso degli Stati Uniti, dove il potere presidenziale non si traduce nella possibilità di andare avanti senza problemi nel corso del suo mandato, come dimostra il conflitto duro con il Congresso che ha radicalmente ostacolato significative iniziative di Obama e ha condizionato pesantemente l’approvazione del bilancio. In quei paesi non ci si rifugia dietro presunte inadeguatezze delle istituzioni, perché si è ben consapevoli che vi sono questioni che possono e debbono essere risolte con la forza e la responsabilità della politica. Se non si torna alla consapevolezza dei doveri della politica, anche alcune necessarie riforme costituzionali finiranno nel nostro paese con l’essere inefficaci.
O seconderanno derive pericolose, come quelle legate alla convinzione che solo la concentrazione del potere può farci uscire dalle difficoltà presenti. Vi sono segni premonitori che non possono essere trascurati. Il passaggio ad una democrazia d’investitura, quella appunto riassunta nello slogan “la sera delle elezioni conosceremo nome del Presidente del consiglio e composizione della maggioranza”, incide sulla posizione del Presidente della Repubblica e getta un’ombra sul ruolo del Parlamento, depurato dal bicameralismo perfetto in forme di cui ancora non conosciamo i dettagli, ma pure funzionalizzato in maniera prevalente alla attuazione del programma ministeriale. Dopo aver dovuto riconoscere che una serie di pretese di revisione costituzionale erano divenute improponibili, alla fine di questo nuovo iter riformatore scopriremo che il cammino è stato ripreso proprio in questa direzione, con una sostanziale modifica della stessa forma di governo?

lunedì 20 gennaio 2014

colloquio con Luciano Gallino di Matteo Pucciarelli

Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio, prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario con la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e all'improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una rivelazione divina: Fantozzi aveva capito tutto. 

Ecco, la lettura dell'ultimo lavoro di Luciano Gallino "La lotta di classe dopo la lotta di classe" (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza) può sortire lo stesso effetto. Anche in un pubblico colto, sobrio e moderatamente di sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell'idea, anzi dell'ideologia moderna liberista, così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci fossero altri schemi possibili all'infuori. E Gallino lo fa mettendo in fila dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza scorciatoie preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste, eccome. Solo che si è ribaltata: è il turbo capitalismo che ha ingranato la quarta contro le conquiste dei movimenti operai ottenute fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri. 

Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali (folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà – diventare una sorta di bibbia laica. 

Era un'ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo piemontese. 

Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di capire che l'attacco all'articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di Monti «le aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà parte di un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui parla nel libro. È così?

«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».

Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco... Ci fu la riforma Treu nel '96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l'impianto ad essere sbagliato...

«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale. L’Ocse non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».

La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per conservatrice. Che poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. Eppure il messaggio non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia sinistra, anti-moderna”. Il progresso sembra appannaggio di chi professa lo smantellamento del modello sociale. C'è un problema di comunicazione? Perché la sinistra ha così tante difficoltà a farsi capire da chi dovrebbe difendere?

«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a sinistra non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il “Lavoro” significa che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa ancor più ardua. E poi la sinistra ha contro la maggior parte dei media e della classe politica, anche quella della “sinistra” stessa. Perché sono state introiettate quelle dottrine neoliberiste di cui prima. La lotta ideologica contro i sindacati per adesso ha vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo degli iscritti al sindacato nei Paesi sviluppati. E questo ha inciso anche sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica». 

Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. Perché una è sicuramente rimasta, viva e vegeta....

«La fine delle ideologia è una delle più robuste e articolate ideologie in circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”, “tagliare le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più flessibilità”, “meglio il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile decisione, anche a livello locale”. Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di una parte della sinistra. Conta poco che queste ricette siano sistematicamente sconfessate dalla realtà»

È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da Gramsci la propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi spiega, e lo ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia stata sedotta. Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche l'internazionalismo, cioè la capacità di fare "gioco di squadra" a livello planetario. Come si fa a invertire la tendenza? Come si fa a imporre nuovamente una visione alternativa della società? 

«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano della pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e culturale. L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di persone, seminando recessione. E qui nasce un altro pericolo, cioè che politiche di questo genere fomentino l’estrema destra che urla contro la finanza, ma in modo assolutamente strumentale». 

Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, sempre a sinistra, ha ritirato fuori la cosa.

«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal segretario del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare salari, posti di lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica al consumo. La crisi è nata anche per delle storture del modello produttivo. Non si può pensare di continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro…»

Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan "Lavorare meno, lavorare tutti". A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una critica a livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito nessun sindacato, o gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire che era inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di dollaro; e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con profitto...». È sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà di classe? L'egoismo, l'interesse particolare, ha contagiato anche il sindacato? È questa l'ennesima vittoria del pensiero dominante? 

«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle attività produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è avere un megafono per parlare a cinquemila operai tutti insieme, un conto è andarli a cercare in cinquanta fabbriche diverse con cento operai ciascuno. Però sì, a livello internazionale si è fatto poco. La necessità, adesso, è esportare diritti».

Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in realtà governi di destra. Lo chiarisce molto bene. Com'è possibile che il Pd lo sostenga e ne subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un cerchio che si chiude. La dimostrazione che la sua analisi sul pensiero dominante è corretta.

«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale, come dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di apparire agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una questione di competenza: si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è sviluppata, per colpa di chi o di cosa. E infine c’è un fattore di convenienza: l’Italia è in Europa, e in Europa si gioca con le regole del liberismo. Così qualcuno avrà pensato di far mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla richieste dolorose che Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un grigio calcolo elettorale». 

Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di pagare?

«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non opera come una normale banca centrale: non può concedere prestiti, magari a basso tasso di interesse, agli stati membri o ad altre istituzioni. Questo perché il trattato di Maastricht lo proibisce. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria entrando nella Ue, e quindi ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto questo, non pagare il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida, specie se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i Paesi hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando il proprio debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del sistema finanziario. Sono stati fulminei a fare la riforma delle pensioni, a imporre diktat da occupazione militare alla Grecia, eppure da anni giace in un cassetto da anni una riforma di questo tipo. Per la quale dovremmo davvero batterci».

L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per ridare fiato alla sinistra. Ho letto il "Manifesto per un soggetto politico nuovo", e mi sembra che il gruppo di intellettuali che l'ha redatto e firmato, tra cui lei, vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte dei partiti d’area?

«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si tratta di buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il ponte tra movimenti e organizzazioni politiche. Se i movimenti continuano a vedere i partiti come vecchie carrozze, e se i partiti vedono i movimenti come allegri ma inutili catalizzatori per le manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».

Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta del socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità essenziale su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata la torreggiante megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo. Quel frammento, che dopotutto sta alla base del movimento operaio da quando è cominciato, fin dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione stessa della storia, o meglio la ragione che conferisce un senso alla storia. Era giusto che la torre cadesse, ma, cadendo, la torre ha sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo frammento che rappresentava la speranza di un rinnovamento della società intera. E questa è stata una perdita enorme». Lo sa che le daranno dello stalinista?

«È possibile e la cosa mi diverte anche. Perché cito dati ufficiali, molto spesso, del Congresso americano. Tutto questa significa che tra la realtà oggettiva delle cose e l’interpretazione che se ne dà c’è una distanza siderale. E ciò non depone certo a favore della maturità politica della nostra classe dirigente».

(4 aprile 2012)