sabato 19 aprile 2008

Pratiche di democrazia

INTERVISTA AL SOCIOLOGO CANDIDO GRZYBOWSKI
Pratiche di democrazia
«Solo una società fondata sulla cittadinanza attiva può contrastare la globalizzazione neoliberista», sostiene lo studioso e attivista brasiliano, tra i «padri fondatori» del World Social Forum.
Giuliano Battiston
Secondo il sociologo brasiliano Cândido Grzybowski, tra i «padri fondatori» del World Social Forum, bisogna approfittare dell'apertura dello spazio politico emerso dalla crisi economica per costruire alternative che «rafforzino l'autonomia e al tempo stesso la complementarietà dei popoli». Per cambiare i connotati della globalizzazione neoliberista, «che domina le diversità trasformandole in disuguaglianze strutturali», occorre «agglutinare le forze», cogliendo l'occasione per riconquistare l'autonomia dei cittadini nei confronti dei poteri statali e dell'economia di mercato. All'«individualismo predicato e praticato dal modello neoliberista», infatti, non si può che opporre una nuova cittadinanza globale che «derivi dalle battaglie sociali e che sia in grado di fortificare la diversità dei soggetti collettivi», assicurando a tutti il diritto di partecipare alla cosa pubblica.
Per Grzybowski anche la democrazia può trasformarsi in un serio rischio, se «si limita al formalismo della rappresentanza e rimane incapace di generare una società fondata sulla cittadinanza attiva», che dia visibilità anche a quanti sono socialmente invisibili. Per fare tutto questo bisogna «pensare audacemente, molto audacemente. E costruire senza paura un nuovo immaginario». In Italia su invito del Festival Internazionale del Giornalismo, lo abbiamo incontrato a Roma, nella sede dell'Arci, dove ha partecipato a un incontro del Coordinamento italiano per il World Social Forum.

Per gli «altermondialisti» la crisi finanziaria è un'opportunità per sbarazzarsi dell'attuale sistema politico-economico e disegnare una nuova architettura delle relazioni internazionali che sia realmente inclusiva. Per lei è anche un rischio: di recente ha scritto che, se non riusciremo ad approfittare di quest'occasione storica per dare forma a una vera democrazia globale, «dovremo fare i conti con un reincarnazione del capitalismo peggiore di quella attuale». Quali strumenti suggerisce di adottare per trasformare il rischio in opportunità?
La crisi dimostra semplicemente che il sistema non è sostenibile e non funziona, ma per individuare priorità e percorsi da compiere c'è bisogno di una riflessione strategica: la crisi apre le porte, ma non indica quale strada seguire, né, tanto meno, offre gli strumenti con cui edificare un nuovo sistema. Quegli strumenti vanno costruiti pezzo per pezzo. I sostenitori del modello neoliberista, e gli stessi governi che a quel modello hanno «aderito», non hanno idee da proporre; discutono solo dei modi per evitare che accada il peggio, in particolare di come mantenere un certo livello di occupazione, e gli stessi movimenti sociali sembrano orientati in questa direzione. Quella del lavoro è una questione importante, che però rischia di farci dimenticare come già prima della crisi il lavoro non fosse garantito a tutti. Chi pensa a quella parte cospicua della popolazione mondiale che non ha mai avuto lavoro, che prima della crisi non aveva prospettive di ottenerlo e che ora vede la propria posizione peggiorare? Soluzioni facili non ce ne sono, ma proprio per questo dobbiamo lavorare con maggiore determinazione per coagulare forze e capacità, tessere alleanze e riflettere. Soprattutto, sulla base degli insegnamenti dei movimenti indigeni dell'America Latina e del Sud, dobbiamo riconoscere la necessità di decolonizzare le nostre menti. Finora per criticare il capitalismo e i suoi effetti abbiamo usato prevalentemente le categorie del marxismo, che in qualche modo suggerivano l'idea che con l'incremento delle capacità industriali avremmo ottenuto società migliori e più eque. Ma ci siamo resi conto che il sistema industriale con il suo «produttivismo» è parte del problema, non della soluzione. Per questo occorre ricominciare a pensare: edificare una nuova scienza, indirizzare diversamente la tecnologia, riappropriarci della ricerca scientifica privatizzata, dare forma a un nuovo modello di società. Si tratta di un cambiamento che richiederà del tempo. Ma una democrazia globale reale, che voglia essere inclusiva di tutti gli attori sociali, che sia fatta di negoziazione e partecipazione, procede proprio in questo modo: creando nuove condizioni prima ancora che indicando percorsi specifici.

La crisi produce nuovi conflitti sociali, che potrebbero coinvolgere fasce di popolazioni sempre più ampie. In un saggio scritto per la rete di attivisti Euralat, «Liberdade e igualdade com afirmação da diversidade», lei ha sostenuto che «i conflitti e le battaglie hanno un potenziale distruttivo e costruttivo. Quale dei due aspetti prevale dipende dal modo in cui sono condotte e indirizzate». Cosa dovremmo fare per promuovere conflitti che siano costruttivi e non si riducano alla richiesta di cambiamenti «cosmetici»?
Canalizzare le energie intorno a un programma politico, esercitando gli strumenti dell'ingegneria politica. Lei sicuramente conoscerà bene Gramsci, uno degli studiosi che con più lucidità ha riflettuto sui modi attraverso i quali stabilire un'egemonia e imprimere una «direzione» politica agli eventi. In questi termini, occorre «dare senso» ai conflitti. I cambiamenti strutturali accadono soprattutto nella sfera economica e in quella statale, ma dipendono in primo luogo dai cittadini. Nella storia è sempre stato così. Lo Stato non ha in sé la forza dinamica di cambiare; sono i cittadini che spingono a farlo. Lo stesso vale per l'economia, che va sempre re-inventata, e che oggi deve essere subordinata al bene comune collettivo. I conflitti attuali vanno esaminati con estrema attenzione: possiamo «banalizzare» le energie che esprimono, depotenziarle, perfino distruggerle, o lasciare che diventino il serbatoio per una nuova forma di fascismo. Per evitare tutto questo dobbiamo trarre insegnamento dalla storia: le istituzioni sono in gran parte inadeguate a rispondere alle sfide globali, anche perché rispondono a logiche di carattere nazionale. Di fronte a queste sfide servono nuove strategie integrate, di natura regionale, con cui costruire piattaforme che superino i limiti degli Stati-nazione. È un percorso difficile, perché contraddice cinque secoli di costruzione e consolidamento degli Stati. Ma è necessario. Soprattutto oggi.

Dal 1990 lei è direttore di Ibase, l'Istituto brasiliano per le Analisi sociali ed economiche, e tra i diversi progetti che Ibase porta avanti ce ne sono due particolarmente importanti: «L'Agenda post-neoliberista: alternative strategiche per uno sviluppo umano democratico e sostenibile» e «Dialogo tra popoli per costruire un regionalismo alternativo». Ritiene che una alternativa praticabile ed efficace al modello neoliberista passi anche per un'integrazione regionale di natura culturale e sociale?
I più potenti attori economici, come le multinazionali, usano le divisioni per procedere contro i bisogni della gente e nascondere la natura «comune» delle risorse. Per questo il regionalismo è indispensabile. Prendiamo il caso dell'Amazzonia, un bene comune, condiviso da nove nazioni e da un numero ancora maggiore di popoli. Praticamente tutti i popoli indigeni dell'America Latina hanno qualche legame con l'Amazzonia; popoli che spesso vedono nell'autorità statale una nuova forma di colonialismo. Affinché la loro autonomia possa essere salvaguardata e si possano edificare Stati autenticamente pluralisti, c'è bisogno di una strategia su scala regionale: da soli questi popoli non avrebbero la forza di resistere alle pressioni esterne. Preferirei però che si parlasse di regionalizzazione piuttosto che di integrazione. Quest'ultimo è un termine di derivazione commerciale: le grandi infrastrutture che attraversano l'America Latina come vene aperte (per riprendere l'espressione di Eduardo Galeano) riflettono proprio questo modello, basti pensare alle arterie commerciali destinate all'estrazione dei minerali. Il regionalismo invece non richiede infrastrutture, ma comunicazione di culture, esperienze e popoli. Solo attraverso una comunicazione del genere si potrà finalmente riconoscere la reciprocità dei diritti, dare forma a una diversa «visione del mondo», creare progetti, elaborare sogni. Prima ancora delle indicazioni «tecniche», c'è bisogno infatti di trasformare i nostri progetti in un grande movimento di idee, che investa le società e assuma la forma di una rivendicazione culturale, di una richiesta di cambiamento. Una richiesta radicale, che nel momento stesso in cui viene avanzata dimostra la sua realizzabilità: la fiducia nella possibilità di cambiare le cose può trasformare i conflitti in forze costruttive.

Dai suoi esordi, lei è uno dei protagonisti e organizzatori del World Social Forum. L'ultima edizione, che si è svolta pochi mesi fa a Bélem, in Brasile, ha visto la presenza di ben cinque presidenti di paesi latino-americani (Lula, Morales, Correa, Lugo, Chavez). In un'intervista con Alejandro Kirk di International Press Service lei ha sostenuto che il Wsf di per sé non ha prodotto la «svolta» a sinistra in America Latina, ma ha aggiunto che «se non ci fosse stato sarebbe stato difficile immaginare» una svolta simile. Ci spiega meglio cosa intendeva dire?
Intendevo dire che la svolta a sinistra è fortemente legata all'atmosfera creata dalle richieste di cambiamento dei movimenti sociali. Come dicevo poco fa, sono le idee che «attraversano la società» a spingere la politica in una certa direzione. Politicamente è stato importantissimo che i cinque presidenti abbiano partecipato insieme allo stesso evento. Ma l'elemento più rilevante è emerso dal discorso di Lula, quando ha affermato che i presidenti erano a Bélem grazie a noi, ai diversi gruppi sociali, e non viceversa. È stato un riconoscimento esplicito della forza dei movimenti sociali. Una forza che da un lato comporta una grande responsabilità per l'America Latina nel suo complesso, perché ci invita a procedere, a sperimentare nuove pratiche e adottare soluzioni non ortodosse. E dall'altro coincide con un innegabile vantaggio politico in relazione alla crisi. Prendiamo l'Europa: c'è forse un solo leader politico che sia capace di articolare un'idea degna di questo nome? Qualcuno che abbia veramente in mente delle alternative?

A proposito di Lula: quando è stato eletto per la prima volta lei ha affermato che con la sua vittoria «i poveri, coloro che sono stati marginalizzati, i lavoratori» sarebbero potuti «diventare la forza trainante nella ricostruzione della nazione», mentre in un saggio del 2007, «Which Brazil does the world need?», ha scritto: «bisogna riconoscere che il ciclo di rinnovamento democratico inaugurato con la battaglia contro la dittatura si è esaurito». Qual è «l'altro Brasile» che la democrazia brasiliana avrebbe dovuto costruire, e come giudica, oggi, il governo Lula?
Lula è quanto di meglio poteva produrre il processo di democratizzazione brasiliano. Ma non è abbastanza. Rappresenta la fine di un certo periodo della nostra storia, mentre avremmo bisogno di un nuovo inizio. Il Brasile che usciva dalla dittatura militare ha creato un sistema formalmente democratico, ma ha perso l'occasione per sviluppare una democrazia realmente inclusiva. Si stima che circa metà della popolazione brasiliana non sia organizzata politicamente, che non abbia alcuna «identità» politica. L'altro Brasile che dovremmo costruire è un paese capace di portare queste persone all'interno dell'arena pubblica, di farne soggetti politici che esercitano i loro diritti, e che così facendo contribuiscono all'affermazione di una nuova ondata di attivismo sociale. Ma occorre anche tornare a riflettere sul modello di sviluppo. In questo campo c'è stato un deficit di analisi, perché si è pensato che bastasse la democrazia formale per ottenere un cambiamento anche nello sviluppo. Invece c'era - e c'è - bisogno di alternative reali, di una riflessione democratica su come costruire un'altra economia. Quella attuale non può essere democratizzata, perché non è stata pensata per la democrazia e non è un «portato» della democrazia. Credo che sia necessario passare per una rilocalizzazione dell'economia per renderla democratica: tutti noi viviamo in qualche luogo particolare, abbiamo un «indirizzo», siamo «individuabili». Gli attori economici invece spesso non ce l'hanno. Dovremmo fare in modo che anche loro abbiano un indirizzo.